Roberto di Stefano, Italy Treasury and Trade Solution Sales Head di Citi: “Il futuro delle aziende? Sarà di chi sarà in grado di fare le giuste previsioni”
La sede di Citi si affaccia su Piazza dei Mercanti nel cuore di Milano. Dalle vetrate degli uffici si può godere di una vista a volo d’uccello del Duomo e della Galleria Vittorio Emanuele. Roberto Di Stefano ha il fisico del grande sportivo, i modi gentili e una stretta di mano d’acciaio. Ci accoglie in una sala riunioni invasa dalla luce dell’estate meneghina. Di Stefano è Italy Treasury and Trade Solution Sales Head di Citi, la divisone della banca che si occupa di transaction banking. In oltre sedici anni nella multinazionale statunitense, una fra le più grandi aziende di servizi finanziari del mondo, ha maturato una profonda conoscenza nel Treasury Management, nel Global Banking, ma anche in ambiti Sales, Business Planning e Team Management, coordinando l’attività di Citi nei 100 e più Paesi nei quali la banca opera. Recentemente, ha assunto il ruolo di coordinamento in EMEA per il settore Automotive. Roberto Di Stefano fa parte del Senior Advisory Board di Ayming.
Quali sono state le tappe fondamentali della sua carriera?
Come la maggior parte dei ragazzi che iniziano l’università, non avevo la minima idea di quello che avrei voluto fare nella vita. Ho cominciato con Scienze Bancarie e Assicurative all’Università Cattolica di Milano, ma non ero molto convinto di quello che avevo intrapreso. Due cose hanno contribuito a cambiare la mia vita, facendomi maturare: fare la leva militare obbligatoria e iniziare subito a lavorare. Lo studio infatti non mi soddisfaceva appieno e con un amico ho messo in piedi una piccola società che faceva bio sanificazioni degli ambienti chiusi. Finito il militare ho terminato l’università molto rapidamente. Le cose erano decisamente cambiate: ho alzato la media dei voti ed ho fatto una tesi sui sistemi informativi di marketing nelle aziende di credito. Ho poi cominciato a lavorare nelle assicurazioni perché avevo una mentalità imprenditoriale e quindi volevo fare l’agente. Fui appoggiato dalla Fondiaria Assicurazioni presso una grande agenzia di Milano nella quale facevo consulenza alle aziende sul rischio assicurativo. Da qui mi si aprivano due strade professionali: potevo seguire la carriera direzionale oppure proseguire nelle agenzie. C’era qualcosa però che mi mancava: il contesto internazionale. Conobbi per caso una persona che lavorava in Marsh & McLennan Companies, leader globale nell’intermediazione assicurativa e nella gestione dei rischi aziendali. Entrai così a far parte del più grosso broker assicurativo mondiale e quello che facevo, Risk Financing, mi piaceva molto: seguivo i grossi clienti italiani e per loro gestivo il rischio assicurativo aumentando i benefici da un punto di vista finanziario. Ciò consisteva prevalentemente nel costituire compagnie assicurative captive per conto del cliente. Io non ho una mente matematica ma, credo, una certa componente analitica e statistica e ciò mi è molto servito. Mi occupavo inoltre di consulenza assicurativa nelle operazioni di M&A. Quando lasciai il mio incarico per andare in Citi, Marsh mi fece una contro offerta: propose di assumermi presso la Divisione Risk Financing di New York. Era l’aprile del 2001. Io non accettai e l’11 settembre, nella sede di Marsh nelle Torri Gemelle, morirono oltre 300 persone. Cambiai perché avvertivo che la mia strada si stava restringendo, non potevo più crescere. Così iniziai a fare dei colloqui nell’allora Andersen Consulting ma conobbi anche una persona che lavorava in Citi Milano e che mi propose di ricoprire una posizione rimasta vacante nel settore Energy, Power and Chemical nella Divisone Corporate Banking di Citi Milano. Io avevo già seguito diversi grossi clienti nel campo ma non avevo particolari competenze bancarie, ho fatto il colloquio, mi hanno preso e mi è subito piaciuto lavorare qui, c’era un bellissimo clima. Era il 2 maggio 2001, infatti ho da poco compiuto 17 anni in azienda. Ho girato molto all’interno di Citi, ricoprendo ruoli diversi. Da principio gestivo le relazioni con le principali multinazionali italiane operanti nel settore di Energy, Power, Chemical. Per alcune di loro, sono arrivato a coordinare rapporti con la banca in quasi ottanta Paesi, perfetto per me che desideravo un respiro internazionale. Sono poi passato nel team Citi che gestisce la relazione con le principali multinazionali estere in Italia e, in seguito, sono diventato responsabile del team italiano di sales dei servizi di Transaction Banking, nell’ambito della Corporate Bank, attività che svolgo tuttora. Tra le mie responsabilità vi è la realizzazione di soluzioni per la gestione del capitale circolante mediante strutture di global cash management e di trade finance. I clienti seguiti da Citi sono alcuni tra i principali gruppi privati e pubblici italiani oltre ad alcune multinazionali estere la cui attività globale di Transaction Banking viene gestita da Citi Milano. Data la forte presenza estera di molte delle aziende da noi seguite e in virtù del nostro network unico (Citi ha presenza diretta in oltre 100 paesi), supportiamo i nostri clienti nella gestione integrata della propria tesoreria internazionale utilizzando le più avanzate soluzioni di cash e liquidity management. Inoltre, attraverso la strutturazione di soluzioni quali, ad esempio, il finanziamento della supply chain anche su scala globale, o quello dei flussi commerciali, contribuiamo a ridurre il capitale circolante dei nostri clienti nonché allo sviluppo della loro attività internazionale.
Da un anno e mezzo a questa parte sono diventato anche responsabile del settore Automotive per il mercato EMEA. Quello dell’Automotive è un settore estremamente avvincente, sembra un romanzo di Ken Follett, succedono davvero tante cose.
Quali sono le virtù che si riconosce nel ruolo che svolge e quali i lati del suo carattere che vorrebbe migliorare?
Mia nonna diceva: “Se non hai testa devi avere gambe” e io penso di avere gambe. Anche quando facevo sport non ero bello da vedere ma ero molto efficace perché ci mettevo sempre molta grinta, molta determinazione. Lo stesso sul lavoro. Un’altra virtù che gli altri mi riconoscono è la capacità di rimanere calmo anche in momenti di forte stress. Le persone che riportano a me hanno sempre apprezzato il fatto che non ho mai fatto loro eccessiva pressione. E questo ha favorito un’ottima armonia nel team. Invidio molto, invece, le persone che, leggendo una sola volta un documento, un trattato scientifico o una poesia, riescono a trattenerne già buona parte. Io devo leggere, leggere e rileggere. Il vantaggio, però, è che quando ho assorbito l’informazione, questa rimane incastonata nella mia mente: il lento processo di apprendimento viene sostenuto da un’ottima memoria. Vorrei poi saper scindere meglio quello che è importante da quello che è invece trascurabile: ogni tanto ho la sensazione di fissarmi su una cosa di poco conto e lasciarne cadere una che avrebbe meritato la mia attenzione. A causa di questo, tendo ad arrabbiarmi per delle futilità che mi danno fastidio mentre dovrei farmele scivolare addosso. Ora sono però diventato molto bravo a controllarmi. Come tutti i calmi, quando sbotto trascendo.
Come coniuga lavoro e vita privata? Potrebbe descriverci un suo giorno lavorativo tipo e un momento di relax?
M’impegno per ritagliare spazio per me e per la mia famiglia. Certo, non sempre è possibile, ci sono settimane in cui sono molto impegnato e arrivo tardi, oppure viaggio, ma in linea generale il tempo lo trovo. Ad esempio riesco comunque a fare molto sport, lo metto nel mio programma settimanale, un po’ come una medicina. La mattina presto o la sera tardi, non deve mancare. Mi piace tantissimo e mi fa star bene. Il weekend è ovviamente dedicato alla famiglia. Mia moglie lavora in Banca Intesa e si è appassionata allo yoga, sta facendo un corso per diventare istruttrice e un fine settimana al mese ha lezione dalla mattina alla sera. In quei due giorni mi devo occupare io dei bimbi ed è un momento fantastico. Sono due gemelli, maschi e scatenati, ai quali ho trasmesso l’amore per lo sport. Ho sempre fatto molte arti marziali: a ventitré anni ho dovuto lasciare il karate perché in una gara di Coppa Italia mi si è rotto un piede in tre punti, da quindici anni ho ripreso a fare kick boxing con un personal trainer e gioco a tennis. I miei figli fanno karate, kick boxing, nuoto e calcio. Lavorando in centro riesco ogni tanto anche a raggiungerli dove stanno disputando una gara o partecipando a un evento sportivo e poi torno in ufficio. Riesco così a essere presente in quei momenti per loro molto importanti.
Ci racconti uno dei suoi successi nei vari momenti: dalla sfida alle difficoltà, dal momento in cui ha temuto di non farcela al raggiungimento dell’obiettivo.
Il progetto più sfidante è quello sul quale sto lavorando adesso. Uno dei nostri principali clienti, dopo un lungo processo di selezione, ha scelto noi come unica banca per tutta l’area EMEA. Si tratta di una scelta storica, perché il gruppo in questione ha sempre ragionato in un’ottica multibanca e l’aver scelto Citi come provider unico di servizi bancari rappresenta una decisione che ci ha reso particolarmente orgogliosi, oltre ad aver coronato anni di sforzi. Davvero un’impresa molto interessante e complessa sotto tanti punti di vista, frutto, tra l’altro, di un ottimo rapporto di fiducia con il cliente costruito nel tempo attraverso la professionalità e l’impegno dimostrata da tutto il team. In un processo di selezione vivi continuamente momenti di alti e bassi, ma la consapevolezza di essere, nel nostro settore, tra le prime, se non la prima banca al mondo ci ha dato un vantaggio competitivo enorme nonché fiducia nei nostri mezzi. Quest’anno abbiamo gestito con successo tre operazioni simili, un anno davvero straordinario che necessità sforzi lavorativi e di coordinamento enormi data la complessità dei servizi offerti e il notevole numero di Paesi coinvolti. Mi piace ricordare, soprattutto a me stesso, che molti imperi sono finiti perché avevano conquistato più territori delle truppe che potevano presidiarli. La cosa importante, quando ti espandi, quindi, è che la logistica sia rinforzata in modo adeguato. La parte organizzativa è pertanto fondamentale per consolidare le relazioni esistenti garantendo al qualità del servizio e per potersi espandere ulteriormente.
Qual è il suo rapporto coi social network? Li usa per informarsi? Utilizza LinkedIn? Trova che sia uno strumento utile per il suo lavoro oppure pensa che la quantità di inviti e di messaggi rischia di diventare invasiva?
Io non uso molto i social network. Passato quel momento in cui su Facebook cercavi i vecchi compagni di scuola o l’ex fidanzata, ci passo poco tempo e se pubblico qualcosa, non riguarda la mia vita privata ma informazioni che mi hanno colpito o interessato. LinkedIn lo frequento poco, non pubblico nulla e ultimamente è per me troppo affollato di offerte, sembra un mercato delle pulci. Se sto facendo delle selezioni, ad esempio, preferisco andare a vedere i profili Facebook dei candidati.
Parlando di sviluppo e trasformazione aziendale pensa che il settore Procurement possa e debba diventare più strategico?
Assolutamente sì. Le aziende italiane sono, mediamente, indietro rispetto ai loro competitor internazionali. Spesso, infatti, i processi e gli obiettivi del Procurement non sono perfettamente integrati con quelli della tesoreria e ciò comporta minore efficienza nella gestione del capitale circolante dell’azienda. Conosco la realtà dei grandi gruppi, non quella delle piccole e medie imprese, ma penso che la situazioni non cambi, anzi. Le aziende straniere sono molto più avanti nell’utilizzare il Procurement in modo più allineato con le strategie di gestione del debito e del capitale circolante aziendale. Un esempio, in merito, è rappresentato dalla diffusione delle carte di credito Procurement che in Italia sono proporzionalmente meno diffuse rispetto ai principali mercati europei, eppure sono strumenti che possono portare notevoli benefici di natura economica e amministrativa. Alcuni grandi gruppi internazionali gestiscono i processi di pagamento dei fornitori con soluzioni globali integrate, tra le quali, le carte Procurement, da oltre dieci anni, mentre in Italia, malgrado i progressi registrati nell’ultimo periodo, ci sono ancora considerevoli ritardi. Un altro ambito dove una gestione efficiente dei processi di procurement può trovare una possibile applicazione è nel settore pubblico dove la razionalizzazione dei centri d’acquisto unita all’utilizzo di strumenti quali la carta di credito potrebbe portare benefici considerevoli. Vari governi, in primis quello americano, utilizzano molto la carta di credito per gestire una parte dei loro acquisti.
Quali sono secondo Lei i settori in cui le aziende dovranno svilupparsi domani? Quali quindi saranno le principali sfide che dovranno essere superate?
Tutti devono investire sempre di più nella formazione e nella conoscenza, dove per conoscenza intendo lo sviluppo di competenze non solo specifiche, ma, anche di natura più generale, quali, ad esempio, l’implicazione dei fattori geopolitici sull’economia in generale e sul settore nel quale l’azienda opera in particolare. Il mondo sta cambiando in modo talmente repentino e imprevedibile che le aziende non possono ignorare informazioni capitali per la sopravvivenza del loro Business. Aziende che, ad esempio, operano, investono o esportano in paesi che presentano un certo grado di rischio paese, quali, ad esempio, Iran o Turchia, devono essere in grado di leggere in anticipo cambiamenti che potrebbero compromettere il business locale e, di conseguenza, mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa dell’impresa. Non parlo del colosso, della multinazionale, ma di quelle piccole e medie realtà che hanno puntato tutto sull’export oppure hanno decentralizzato le loro produzioni. Ti puoi svegliare una mattina e il mondo è cambiato, certo, ma ci sono sicuramente una moltitudine di segnali che potevano aiutarmi a non fare un passo azzardato. Le grandissime multinazionali investono molto su analisi di questo genere, grazie anche al loro network che permette di accedere direttamente a una serie di informazioni chiave. Le aziende hanno urgenza di sapere il prima possibile cosa accadrà nel mondo dei pagamenti, cosa cambierà con la Brexit, cosa succederà con i nuovi strumenti di pagamento dell’eCommerce, ecc. Se si comprende il cambiamento quando questo si manifesta, è tardi, si è già fuori mercato. La Cina, ad esempio, sta contribuendo significativamente all’introduzione di una serie importante di cambiamenti nella produzione automobilistica, tra le quali la propulsione elettrica, che avranno ripercussioni importanti sull’intera filiera produttiva mondiale. Per un produttore del settore, anche molto piccolo, capire e anticipare i trend che ciò potrà comportare può fare una grande differenza. Mi piacere sottolineare come, proprio nel settore dell’Internet of Things l’Italia vanti alcuni centri di eccellenza, ben posizionati per cogliere per tempo i cambiamenti dell’ecosistema produttivo mondiale automobilistico.
Qual è il suo punto di vista sul mondo della consulenza?
Mio padre faceva il consulente e devo dire che, come in tutti i settori, la consulenza ha ultimamente registrato, a mio avviso, un calo nella qualità media del servizio. Forse sono io particolarmente critico, ma ritengo che se la globalizzazione dei servizi ha permesso di aumentare fortemente la diffusione esponenziale di alcuni di questi (ad esempio nel campo delle telecomunicazione, nel mondo bancario, assicurativo e della consulenza stessa), dall’altro, la standardizzazione dei processi ha spersonalizzato i rapporti costringendo, ad esempio, gli utilizzatori finali di un servizio a interagire con anonimi e spersonalizzati call centers, magari basati all’estero, anziché con persone dedicate (allo sportello, ad esempio) come avveniva prima.
Anche nella consulenza, credo si sia molto ridotto il concetto del progetto “Tailor Made” a favore più di un modello massivo “Copy & Paste”. In molti settori, tra i quali quello bancario ritengo, quindi, che alcuni consulenti non apportino quel valore aggiunto che sarebbe loro richiesto, forse anche perché il mercato si è espanso e la velocità con la quale avvengono i cambiamenti è tale, che non tutti riescono a mantenere le expertise adeguate.
Aggiungiamo poi il fatto che la consulenza ogni tanto viene utilizzata in azienda quasi come un alibi: se le cose non funzionano come devono, si può sempre dare la colpa al consulente. Detto questo, ci sono le punte qualitative estremamente alte. Io della consulenza penso e parlo bene quando è fatta davvero bene, quando è personalizzata, quando si parte da zero nell’analisi della situazione, al fianco del cliente, per poi implementare un sistema che non è uguale a nessun altro o, comunque, sia il risultato di una vera analisi della soluzione specifica, non semplicemente una riproduzione acritica di quanto recentemente implementato in una contesto simile. Forse, ci vorrebbero meno consulenti, ma maggiormente disposti ad investire tempo e risorse qualificate ai propri clienti.
*L’articolo riporta le opinioni personali del Dott. Di Stefano e non sono da attribuire all’azienda Citi.
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